Uovo o specchio della vita?
Guido Malagoli
“ Per me l’uovo è il simbolo del ritorno alla vita, come a Pasqua, oppure, se vogliamo estendere il concetto, uovo come mito primordiale cosmogonico della creazione dell’universo … Omne vivum ex ovo, dicevano i romani: tutto ciò che è vivente viene dall’uovo. L’uovo come perfezione divina, come quello di struzzo sospeso al centro della Pala di Brera di Piero della Francesca…”
Questo pensavamo e pontificavamo noi tre “sapientoni” mentre andavamo a Pavullo in visita allo scultore Davide Scarabelli.
Erano i primi anni del duemila.
“Troppa roba, ragazzi, vi state allargando troppo. E poi non è mica un uovo quello della mia scultura” ci disse Scarabelli smontando in un attimo le nostre sicurezze.
“Quando ho dato i primi colpi di sgorbia al bozzetto io ho pensato a uno specchio ovale.
La gente che passa davanti alla mia scultura, pensavo, deve vedere le figure e le storie raccontate come se fossero riflesse … cioè la mia scultura deve colpire chi osserva come i raggi della luce colpiscono gli occhi dell’osservatore … dunque le vicende accadute in tempo di guerra devono ritornare a noi riflesse in questo grande specchio”.
Aveva ragione Scarabelli, essendo lui l’artista che ideò la scultura dedicata alla Resistenza e ai fatti di Limidi del 20 novembre 1944. Per lui era uno specchio, era nato come specchio e specchio doveva rimanere. Anche per i sapientoni.
“E mi raccomando, siccome la mia scultura è leggera e il tratto del disegno è post moderno, dunque è realizzato con segni sottili, incisioni e crepe, per favore, date almeno valore alla luna in alto. Lucidatela con la paglietta di ferro perché deve illuminare la scena come un faro. Anche quella specie di biscione sulla destra, che rappresenta il fiume Secchia, lucidatelo! ”
Quel giorno Carla Vaccari, Selmi Enzo ed io restammo affascinati dalle sculture di Scarabelli che prendevano vita nell’ampio giardino della sua casa di Pavullo come totem arrugginiti di ferro. Volevamo sapere da lui la storia del monumento alla Resistenza di Soliera, a chi e perché e come nacque l’idea dell’ovale, quando la realizzò, le difficoltà incontrate, eccetera. Insomma tutto quello che ricordava.
“Il primo contatto lo ebbi con il sindaco Lusvardi. Mi parlò della possibilità di realizzare un’opera pubblica, una grande scultura. Io ero arrivato da poco alla scultura, circa nel 1964-65. Prima, frequentando l’Accademia di Bologna, mi ero dedicato alla pittura che avevo sognato fin dalle scuole medie, e mi cimentai in mostre a Roma in via Margutta insieme a Mafai, Guttuso, Vespignani. Estemporanee e mostre di pittura ne feci tante, ma il mercato non recepiva e del mangiare ne misi insieme poco, tanto è vero che mi infilavo in tutte le manifestazioni, inaugurazioni e matrimoni per mettere qualcosa in pancia e qualcosa nella tasca della giacca.
Quinto Ghermandi, un bravo scultore dell’arte informale, vide i miei dipinti e mi disse di provare con la scultura, non so se lo fece per incoraggiarmi verso un settore nuovo o, al contrario, per dissuadermi con eleganza dal proseguire con i pennelli. Un giorno d’inverno vidi arrivare a casa mia il sindaco Lusvardi conosciuto di vista tramite alcuni amici comuni. Io avevo una trentina d’anni ma fu amicizia istintiva, come istintiva era la sua passione per l’arte. Dopo pochi minuti cementammo amicizia e passione affettando un salame e tirando il collo a una bottiglia di lambrusco. Mi fece la proposta della scultura e mi illustrò a grandi linee il tema da elaborare. Una stretta di mano concluse l’accordo.
Il giorno dopo cominciai a rimescolare qualche chilo di argilla. Un freddo cane nel mio laboratorio, la creta gelava, avevo le dita rigide ma le idee chiare. Ne cavai fuori un bozzetto di una quarantina di centimetri, un ovale con alcune scene appena tratteggiate con un chiodo. Tornò Lusvardi dopo qualche settimana con qualcuno della Giunta. Grandi discussioni: ognuno voleva aggiungere un episodio “… l’è un quèel important o se nò an s capès gninta…” o un personaggio “ ehi.. sa gh’è al tel, bisògna c’agh sia anch al tel éter… “ Se avessi ascoltato tutti i pareri ci voleva una lastra grande come un lenzuolo matrimoniale mica uno specchio. Si accontentarono invece di alcuni suggerimenti e tornarono a valle dopo aver affettato un altro salame col pane buono di Pavullo.
Ritoccai, rimodellai, aggiunsi, tolsi secondo le indicazioni e “secondo me”. Oh insomma, in fin dei conti lo scultore ero io! Tornarono ancora a visionare il bozzetto e già che eravamo entrati in amicizia affettammo subito un salame. Gualdi Ermanno e Lusvardi ebbero qualcosa da dire, le opinioni erano divergenti. Danilo aveva un bel da dare calci sotto il tavolo per zittirlo ma quello continuava ad eccepire. Io volevo aggiungere anche un elemento di drammaticità saldando pezzi di rotaie nella parte inferiore dello specchio per ricordare i viaggi della disperazione da Fossoli verso i lager e i campi di lavoro della Germania. Con questo elemento volevo anche rendere onore a Gualdi, sapendo che era stato rastrellato e forzato dalla Wehrmacht a lavorare per la Todt, invece Gualdi si agitava, si emozionava quando raccontava fatti e aneddoti perché immaginava che tutto si riflettesse sullo specchio. Lui l’aveva capito, ma s’era fissato sul partigiano in primo piano accanto al vescovo, lo voleva col fazzoletto, non un fazzoletto del colore del bronzo, ma rosso vivo come la bandiera, annodato sul davanti, così e così, in posizione dominante.
Nel mio bozzetto i due personaggi avevano la stessa importanza. Lusvardi tagliò, come si dice, la testa al toro. “Ascoltem mè Scarabelli: va pòr avanti in dal tòo lavor ma, per piasèr, arbàsa al capel dal veschev!” Bastarono pochi centimetri di argilla sulla spatola per accontentarlo e la diatriba terminò col solito salame e lambrusco. Abbassai la mitria del vescovo, aggiunsi un berretto di traverso sulla testa del partigiano e tutto finì bene anche se, a lavoro finito, Mario Bisi, che secondo le mie intenzioni rappresentava quel partigiano, quando vide se stesso nella scultura ebbe a dire ridendo: “ Et m’èe mèss in testa ‘na brèta cl’èe piò adata a un picciotto sicilian o a un mafios che a un partigian!”
Dopo tre rifacimenti, le dita congelate e qualche bottiglia vuota, il bozzetto fu terminato. La scultura è roba mia, il racconto è roba collettiva, frutto del confronto politico continuo e animato tra assessori e consiglieri comunali, dunque appartiene alla cittadinanza. Passai alle dimensioni grandi, alla scagliola, al negativo e allo stampo in silicone. Portai tutto in fonderia per la fusione in bronzo, fonderia Brostolin di Verona, ritocchi e velatura di “fegato di zolfo” sul bronzo per annerirlo e dargli una patina anticante, proprio come volevo. Qualche limatina qua e là e il mio specchio era pronto per salire su un piedistallo.
A distanza di tanti anni sono molto soddisfatto di questa opera”. Sorride Scarabelli ripensando alle discussioni e alle bottiglie di lambrusco bevute insieme ai “committenti”. Un brindisi finale con soddisfazione di tutti: lambrusco e salame per essere coerenti.
Sette furono i mesi di lavoro dell’artista ma la storia del monumento non finisce qui. In quegli anni il fare era considerato più importante del progettare e del programmare burocratico visti come orpelli che rallentano l’azione. Meglio poche chiacchiere e tanti fatti. In base a questo principio fondato sul numero e sulla forza elettorale, era sufficiente che la maggioranza annunciasse: “Facciamo un monumento alla Resistenza e ai fatti di Limidi” che si poteva procedere. Infatti, a nostra conoscenza, non esistono agli atti delibere e documenti ufficiali di ratifica. Si faceva, punto. L’unico documento noto è un blocchetto di ricevute della sottoscrizione pubblica per finanziare il monumento. Al termine della sottoscrizione, che andò piuttosto a rilento, mancavano circa 5 milioni per saldare il debito della fonderia.
“Non è un problema” sembrò pensare tra sé Lusvardi. Secondo la narrazione popolare, convocò in ufficio i signori Regnani Gianfranco, industriale, e Bisi Mario, commerciante in petrolio nonché primo attore della Resistenza e del monumento, cioè i due personaggi più ricchi di Soliera. Gli mostrò la foto del monumento: “Al monumeint l’è fat. A sam restèe fòra ed zinc milion. Dùu e mèz pr’oun vàni bein?” Domanda chiara e sbrigativa. Il monumento fu pagato.
Ecco, questa è la storia del nostro specchio della vita giunto nella sede definitiva (così pare) su una collinetta erbosa accanto al cinema teatro Italia dopo aver peregrinato dalla sua sede iniziale nel parco di fronte al Municipio dove venne inaugurato nel 1970.
Il giorno della inaugurazione, anzi la sera, c’era tutta Soliera davanti al Municipio con gonfaloni e stendardi. Presenziarono insieme al sindaco Lusvardi Danilo, il senatore Franco Antonicelli, Rubes Triva sindaco di Modena, Don Sesto e altre autorità. Era il 20 settembre 1970, in ricordo del 25° anniversario della Liberazione.
La scultura in bronzo dello “Specchio della vita” è sostenuta da una specie di vela curva in cemento sulla quale sono scolpite le parole dettate dal senatore Franco Antonicelli che riporto affinché vengano lette, ogni tanto.
Noi di questo paese
vogliamo ricordare
che tutti nella riscossa della Resistenza
fummo una sola famiglia
con un’arma o l’altra tutti combattemmo
e abbiamo avuto i nostri lutti e le nostre glorie
che il seme dell’antifascismo fruttificò tra noi
ed è nata una pianta che vogliamo robusta e frondosa
ma il ricordo della nostra comune passione
non è uno sterile vanto
è una forza con la quale ammoniamo
che il mondo con tutte le sue cose più care
le oneste tradizioni gli sproni ideali
non è salvato da un uomo solo
ma da tutti gli uomini insieme
obbedienti alla ragione fratelli nella sventura
fedeli nell’amore
10 gennaio 2021